Il cambiamento del nome dal Partito del Lavoro (PdL) a Partito Comunista – avvenuto esattamente 10 anni fa durante il XIX Congresso svoltosi a Locarno il 16 settembre 2007 – lungi dall’essere stata una mossa nostalgica, gettò le basi per un profondo rinnovamento (sia organizzativo sia politico) dell’allora PdL.
Il partito che fu di personaggi di grande spessore quali Pietro Monetti, Virgilio Gilardoni, Guido Cavagna, Gabriella Antognini, Mario Tadé, Emilio Küng, ecc. veniva rivitalizzato con l’entrata di tanti giovani provenienti soprattutto dal movimento studentesco. Ringiovanimento che – come si scriveva nelle tesi congressuali di allora – “spinge il Partito del Lavoro ad essere un partito con una propria identità, orgoglioso della sua storia e dei suoi valori, sicuro di sé nella pratica quotidiana e non subalterno né ad una visione perdente identificabile con il concetto di ‘piccolo partito’ né all’ingrato (e per certi versi sciagurato) ruolo di ‘pungolo a sinistra della socialdemocrazia’”. In sostanza si trattava da un lato di rifiutare la prassi “gruppuscolare” tipica di un certo estremismo anti-capitalista privo di propositività, e dall’altro però ribadire la propria indipendenza programmatica – che, anziché esserne l’antitesi, è la base irrinunciabile di qualsivoglia ipotesi di unità della sinistra – rifiutando di rifugiarsi dietro una concezione meramente amministrativa della politica.
Cambiare il nome era necessario dieci anni fa per mostrare una cesura rispetto al partito stanco che erano diventati i vertici comunisti ticinesi negli anni precedenti. In questi dieci anni il Partito Comunista ha aumentato i propri membri, ha migliorato la propria presenza nelle istituzioni e ha rivisto la sua strategia. Molto però resta ancora da fare per radicarsi sul territorio e per aprirsi ad altri settori della società, perché non ci sono solamente gli operai o gli studenti, ma anche settori di piccola imprenditoria strangolati dalle multinazionali e dalle imposizioni dell’UE.